E’ la sorellanza, anche attraverso il tempo, la potente terapia che libera Anna da ‘La prigione della farfalla azzurra’ in cui è rinchiusa dall’amante manipolatore.
Anna era rannicchiata sul balcone, infagottata in quel maglione pesante da cui non si separava mai, aspirava avidamente il fumo della sigaretta, l’ultima si diceva tutte le volte, ma sapeva che si stava mentendo: aveva ripreso a fumare, dopo che lui le aveva offerto, o forse lei glielo aveva chiesto, un tiro delle sue. Era ormai prigioniera di quelle sigarette e anche di lui: dipendenza affettiva, così l’aveva chiamata lo psicologo, quello da cui era andata per anni per un DCA, ora era diventato una sigla, ai suoi tempi si diceva solo anoressia. Ci conviveva da anni e le cose non andavano male, anzi aveva imparato a curarsi, ma poi era arrivato lui: un uomo affascinante, intrigante, pieno di misteri, ma che sembrava vedere il mondo con il suo stesso sguardo, la capiva, l’ascoltava, era dolce e premuroso, forse anche troppo, ma all’inizio si sa ai miracoli si crede e lei, che un po’ sulle nuvole viveva, aveva voluto crederci. C’era però qualcosa dentro di lei che sussurrava insistentemente e poi sempre più forte, c’erano in quel rapporto delle incongruenze che non consentivano di farlo decollare: si è vero lui era sposato, e lei un po’ in colpa si sentiva, ma gli credeva quando diceva che la moglie lo soffocava, che la loro relazione era finita, che entro l’estate avrebbero definito le condizioni della separazione e l’avrebbe lasciata.
Lui indossava una maschera
Quante volte aveva pontificato con le sue amiche che gli uomini non le lasciano mai le mogli e ora era lei a trovarsi come loro appesa ad una speranza che non si avverava. Non c’era solo quello però a farle provare una strana inquietudine: lui aveva comportamenti strani, non era facile da spiegare, ma Anna aveva spesso la sensazione che lui recitasse una parte, a volte gli riusciva meglio, altre era come se si staccasse un po’ la maschera che lui costantemente indossava. All’inizio lei era una dea, una divinità da adorare, ma i suoi successi lavorativi – lei era molto brava e richiesta e apprezzata come giornalista e saggista – lo infastidivano, cioè apparentemente gli piaceva accompagnarsi con lei, frequentare gli ambienti editoriali di Milano, ma quando erano soli trovava sempre qualche piccolo difetto nel pezzo di quella mattina oppure nel giornale per il quale lei scriveva perché a suo dire stava diventando troppo locale e via che sciorinava critiche edulcorate poi da notti di grande passione. Fare l’amore con lui all’inizio era stato straordinariamente dolce e coinvolgente, ma come tutte le cose vissute con lui alla fine era diventato non spontaneo, un atto ripetitivo, una pillola per stordire, per ammaliare, per manipolare. L’autostima di Anna divenne completamente assoggettata a quell’uomo che si sentiva potente quando riusciva a mortificarla con i suoi giudizi implacabili o con i suoi silenzi finalizzati a farle fare quello che lui voleva e tutte le volte lei si piegava, non sopportando neppure l’ipotesi di poterlo perdere.
La manipolazione amorosa
Le cose si complicarono quando lui perse il lavoro: entrò in crisi, incolpò quel dirigente che non l’aveva capito e inscenò un dramma facendo credere ad Anna, alla moglie e a tutte le persone a lui più vicine di essersi licenziato, poi, molto tempo dopo, il fiuto di Anna, in quel momento annebbiato dall’abile manipolazione amorosa, le permise di scoprire che lui aveva combinato un disastro con uno dei più importanti clienti dell’azienda per la quale lavorava, non era la prima volta, era un cliché che si ripeteva identico da anni. Lui mise in discussione tutte le decisioni prese: non poteva più lasciare la moglie, le difficoltà economiche glielo impedivano, anche la loro relazione doveva finire, lei era una distrazione, se si era dovuto licenziare era anche, anzi no, era soprattutto colpa sua. Anna era frastornata, non capiva, ma credeva alle sue parole e si sentiva in colpa, non riusciva più ad avere una chiara visione della realtà, era sempre distorta dalla lente di lui che adesso si era messo pure a rivalutare la moglie e le raccontava di come lei ancora l’amasse, che non poteva non tentare di recuperare il suo matrimonio perché in fondo la moglie era una donna straordinaria. Anna lo cercava, lui si negava, poi le mandava qualche messaggio e lei cercava di interpretarlo alla ricerca di una speranza per loro: lei donna libera e che si era fatta sempre portavoce delle rivendicazioni femminili, era ora schiava di un uomo che le aveva tolto tutto anche la dignità.
L’unico sollievo erano le sigarette e un ciondolo
Andava sotto casa di lui, cercava di vederlo, controllava ossessivamente i social, soffriva tremendamente. L’unico sollievo erano le sigarette e un ciondolo, di sua nonna: una piccola farfalla con le ali di acquamarina. Era diventato per lei come un amuleto che la faceva ancora sentire viva, un po’ come il topo bianco d’avorio della Dora Markus di Montale, che Anna amava molto, e decise di indossarlo credendo ingenuamente che quello potesse proteggerla.
Stava annaspando anche sul lavoro, non era brillante e perspicace come prima di quella relazione, il suo caporedattore se n’era accorto, aveva dovuto intervenire, ma non infierendo come spesso accadeva nel suo settore e le lasciava articoli e casi meno impegnativi, però questo non contribuiva all’umore di Anna e ad una depressione latente che si stava purtroppo facendo strada.
Qualcosa di inaspettato
Una mattina però accadde qualcosa di inaspettato: ricevette una mail da parte di un ricercatore che le chiedeva conto di un lavoro di ricerca che aveva fatto molti anni prima su una donna a cui Anna si era dedicata quel tanto che bastava per farle scrivere qualche articolo e una piccola pubblicazione sulle donne del suo territorio d’origine, non aveva mai approfondito oltre. L’entusiasmo di quel giovane ricercatore la coinvolse e cominciarono a lavorarci insieme: cercare notizie su quella donna, tentare di definire i contorni di una vita di cui nessuno aveva mai parlato furono per Anna una potente terapia perché scrivere di quella donna significava anche rimettere insieme i pezzi della propria storia, ritrovare lei voleva dire ritrovare anche sé stessa, uscire da quel buco nero in cui quella relazione tossica l’aveva gettata.
La scatola rossa
Per una di quelle straordinarie congiunture fortunate Anna e il suo amico ricercatore trovarono presso i nipoti della protagonista del loro studio una scatola rossa piena di documenti, lettere, fotografie, testimonianze preziose della sua attività politica e sociale, ma anche carte private intense ed appassionate e tutto ciò consentì loro di disegnare contorni ancora più netti dell’appassionante storia di quella donna. Scrissero entrambi dei saggi, lui anche un libro, e quella storia venne raccontata e divulgata. Anna ritrovò l’entusiasmo per la ricerca e per la scrittura, ma soprattutto ritrovò sé stessa: quella donna del secolo scorso l’aveva legata a sé, le aveva parlato attraverso le sue testimonianze scritte e le immagini, le aveva svelato il suo modo di essere donna e le aveva insegnato a prendersi cura delle sue ferite. Anna riuscì ad intessere un’anacronistica corrispondenza con quella donna, un potente legame che fu per lei conforto e salvezza. Per amore, un amore non corrisposto, malato, tossico si era persa e grazie ad una sorella del secolo scorso aveva iniziato un nuovo percorso: Anna così sicura, determinata e indipendente era caduta e si stava perdendo per un uomo sbagliato, malato che provò a ritornare, ma ormai Anna aveva sviluppato i preziosi anticorpi che la sorellanza femminile trasmette.
Una sera su quel balcone su cui ormai non fumava più, non ne aveva più bisogno, si sfilò dal collo la collana con il ciondolo a forma di farfalla, lo ripose nella sua vecchia custodia e finalmente tornò ad essere libera.
Livietta Martini è lo pseudonimo che l’autrice ha scelto per questo racconto.
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