‘La madre ritrovata’ e il ritorno ad una terra gelosa, narcisista, “che nega il pane” nel racconto di Angela Mancuso. Sicilia, 2020
Quando i figli erano tornati la terra non li aveva riconosciuti. Il loro odore era cambiato, perché avevano masticato asfalto duro e fumi di fabbriche, perché avevano bevuto nebbie amare e monolocali in affitto, perché quando lasci la terra lei si sente come una donna tradita, le si spezza il cuore, accarezza vendette, si getta tra le braccia indifferenti di altri uomini, e anche se sa che è stata lei a tradire, che il suo amore è stato egoista, che ti ha tolto il respiro, che ti ha negato il pane, che ti ha soffocato e asfissiato, di tutto questo non le importa nulla.
E’ una terra gelosa, la Sicilia, Impertinente, avara, narcisista.
O la ami o la odi.
Non ci sono vie di mezzo.
Quei figli sulla cartina geografica
Ora che Rosa rivedeva quei figli raccolti attorno al suo letto avrebbe voluto dir loro tante cose. Avrebbe voluto sapessero che non li aveva messi al mondo per vederli un giorno partire, scagliati lontano come frecce scoccate da un arco infallibile. Un lungo volo e s’erano conficcati per sempre a Milano, a Torino, a Belluno, a Bassano del Grappa, che lei s’era fatta comprare una cartina geografica per fissarsi negli occhi dove fossero quelle città e se l’era fatta attaccare alla parete della cucina. Aveva poi tracciato un cerchio attorno ad ognuna di esse e dentro Milano aveva inciso il nome di Luca, dentro Torino Concetta, dentro Belluno Michele, mentre Giuseppe era nel cerchio che inghiottiva Bassano.
Periodicamente sotto ogni nome ne spuntava uno più piccolo, fiocchi rosa o azzurri che in pochi anni avevano coperto valli, fiumi e pianure.
S’era voluta sposare bambina
Io non ci vengo a trovarvi, non ci salgo su un aereo, non si sale su una cosa che vola, gli uomini non volano, non ce le hanno le ali. U Signuruzzu l’ali i ficia sulu all’angili du Paradisu!
Di prendere il treno neanche a parlarne. Ventidue ore di odissea sudata per arrivare a Milano. Otto ore solo per percorrere la tratta Canicattì-Messina.
Che se non era per l’infarto di vostro padre e per i miei calcoli renali neanche ad Agrigento me ne andavo. Neanche il tassì pigliavo!
Solo l’ultima figlia era rimasta. La più ribelle, la più testarda.
S’era voluta sposare bambina, per poi tornare dalla madre e dal padre, col ventre sterile e l’animo deluso.
“Cos’ha detto il dottore?”
“Non c’è più niente da fare, possiamo solo aspettare, il cancro se l’è mangiata”
Rosa sentiva tutto, la mente lucidissima nel corpo devastato.
Bocche sporche di cioccolato
Le avrebbe fatto davvero piacere se avessero portato i bambini. In quel momento le sarebbe piaciuto sentire innocenza, gioia, allegria. Ascoltare domande impertinenti, ridere di bocche sporche di cioccolata e di capelli in disordine.
Avrebbe preferito sentir scorrere la vita attorno a sé, coi suoi germogli proiettati nel futuro.
Invece i figli avevano già cominciato a piangerla e a pensare alle incombenze delle esequie, alle carte da sistemare, a organizzare i giorni del “visito”, quando la casa stava col portone spalancato per le condoglianze di parenti e amici.
Chi si sarebbe occupato di tutto?
Luca, che dirigeva un’azienda, non poteva fermarsi a lungo. Concetta, che insegnava, avrebbe avuto a disposizione i tre giorni per lutto.
Per il padre avevano fatto così, erano arrivati, l’avevano seppellito, erano ripartiti.
“Li ho serviti fino all’ultimo…”
I cellulari continuavano a squillare, nuore e genero chiedevano notizie. Erano rimasti coi figli a gestire da soli quello che già in due è difficile gestire, la vita frenetica, meccanica, impersonale della grande città.
Ogni tanto Rosa coglieva brandelli di conversazioni che avrebbe preferito non cogliere.
“Mi sono sempre occupata io di loro. Li ho serviti fino all’ultimo. Ho pensato a tutto io. Mi sono sacrificata mentre voi facevate la bella vita”
“Non è colpa nostra se ti è toccata quella disgrazia”
“Non vi permetto!”
“Te li sei goduti mamma e papà e non ti è mancato nulla. Ora ti pigli la casa, la rendita dei terreni, cosa vuoi di più? Da parte mia ti lascio tutto”
“Parla per te, Giusè, io un ricordo lo voglio, quello che mi spetta. Lei ha già avuto abbastanza”
“Disgraziati, non è ancora morta e già parlate così. Che diranno i vicini?”
“Le cose le dobbiamo lasciare sistemate. Dobbiamo chiarire tutto adesso”
Le notti passate a vegliare
Rosa fissava il soffitto. La sua mente rimbalzava indietro. Alla memoria riaffioravano le notti passate a vegliare Luca e le sue febbri altissime, l’indicibile angoscia e il senso d’impotenza che aveva attanagliato marito e moglie nella sala d’attesa del Pronto Soccorso quella volta che Michele era stato investito da un motociclista ubriaco. E poi il lavoro, i sacrifici per dare un’istruzione a tutti quei frutti tanto desiderati, tanto amati.
Il sole stava tramontando e le imposte venivano serrate. L’unica luce la forniva la piccola lampada accesa sul comò e il lumino rosso posto ai piedi della statuetta in gesso della Madonna.
Il sacerdote era da poco entrato e s’era chinato su di lei.
Era giovane, aveva preso gli ordini da poco. Veniva da un paesotto dell’entroterra per affiancare l’anziano prete della parrocchia che Rosa frequentava da quando era nata.
“Per istam sanctam unctionem et suam piissimam miseri-cordiam…”
Mentre le impartiva l’estrema unzione a Rosa nel guardare quel volto bello e acerbo era venuto un pensiero irriverente e sacrilego.
“ …adiuvet te dominus gratia spiritus sancti…”
Chissà se era mai stato innamorato.
“ …ut a peccatis liberatum te salvet atque propitius allevet”.
O se mai lo sarebbe stato.
“…Amen!”
Le ultime sillabe d’amore
Alla luce fioca della lampada e dell’agonia i cinque volti sei figli le sembravano quasi crudeli. Immobili e attoniti nella loro fissità rapita.
Erano stati così buoni. O almeno così le erano parsi fino a un certo punto della loro vita. Eppure era sicura che le volessero bene. Ne era sicura.
Ancora le giungevano gli ultimi sussurri.
“Io ero disposto a portarmela a Torino. Lei non c’è voluta venire!”
“Ma se quando è stato di papà tua moglie il nero non l’ha tenuto neanche una settimana”
“Il rispetto si porta da vivi”.
Rosa allora aprì le labbra e provò a mandar fuori le ultime sillabe d’amore.
“Non litigate…”
“Mamma, cosa dici?”
“Non litigate…”
“Mamma! Ci senti? Ci riconosci?”
“Giurate!”
“Mamma…”
“Giuratelo!”
Forse era questa la luce
Poi abbassò le palpebre sfinite e non pensò più a nulla. Si mise quieta ad aspettare la sua luce, perché per tutta la vita le avevano fatto credere che ci sarebbe stata una luce e lei s’era avvinghiata come edera a questa verità.
Forse fu Dio, o forse l’istinto materno a concederle di riaprire un’ultima volta gli occhi. In tempo per scorgere mani che si stringevano e spalle che si abbracciavano. In tempo per intuire cuori fraterni che si cercavano e che tornavano a riconoscersi.
Forse era questa la luce. Sicuramente fu questa la sua.
E così si addormentò.
Angela Mancuso, di Licata (Ag) docente di Lettere, scrittrice e musicista, ha ottenuto importanti riconoscimenti in prestigiosi concorsi letterari. Nel 2011 ha pubblicato la sua opera prima di poesia ‘Icaro’ (Ibiskos Editrice Risolo) e nel 2012 la raccolta di racconti ‘Il fox della luna’ (Ibiskos Editrice Risolo). Nel 2019 è uscita la seconda silloge di poesie ‘Sculture d’incanto’ (Il convivio Editore). Dal 2016 è direttrice artistica del Premio Letterario Nazionale ‘Raccontami, o Musa…’ promosso dall’associazione culturale Musamusìa di Licata.
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