La guerra di Lalla e Fede: malata una, custode l’altra, due sorelle lottano contro cancro e stereotipi femminili nel diario di Ilaria Romolotti. Italia 2019
Le donne sono deboli. Le donne sono stupide, frivole, superficiali. Le donne sono bellissime, devono sempre essere perfette, sensuali, provocanti ma non troppo. Hanno un innato istinto, una naturale propensione alla maternità, perché diventare madri è il loro compito.
Le donne sono emotive, drammatiche e teatrali. Le volte che ho visto piangere mia sorella l’anno scorso le conto sulle mani. Aveva il cancro.
A mia sorella hanno tolto i seni, emblema della bellezza femminile, della sensualità, della sua identità. Ha perso tutti i capelli, quella ribelle e fiera criniera dorata che aveva. Mia sorella non potrà mai avere figli. Qualcuno oserebbe dire che biologicamente non è più donna per questo?
Aveva 23 anni.
Questo non è un saggio femminista
Io, che di anni ne avevo 22, sono una studentessa di Scienze Filosofiche e l’anno scorso ho frequentato le lezioni, sostenuto gli esami raggiungendo il massimo dei voti e ho dedicato la mia anima a prendermi cura di lei, di quel fragile leone mai spezzato dalla morte che si portava nel petto. Questo non è un saggio femminista, questo non è un racconto immaginario, fantasioso. No, questa è solo una riflessione che condivido con voi, un semplice flusso di pensieri in cui vi mostro due modelli di femminilità ‘alternativi’ a quelli che ci vuole imporre la nostra società, due modelli in realtà banalissimi, quotidiani, reali (anche se mi auguro che quello di mia sorella rimanga per la maggior parte delle persone una drammatica eccezione).
È il frammento di una storia di vita incarnata, concreta.
Zaino in spalla: dentro, la vita
Le giornate in Università, libro in una mano, telefono nell’altra, aspettando le sue notizie dall’ospedale.
La testa che deve rimanere concentrata, attenta, presente. Il cuore, stanco, che arranca nel petto, ora sussultando, ora accelerando.
I sorrisi di circostanza, le solitarie lacrime tra gli scaffali della biblioteca. I pranzi nella solitudine dell’affollata Ghiacciaia o nell’intimità della rampa delle scale.
Come sta Fede?
Ha vomitato? Ha mangiato? È triste? È uscita dalla sala? Quando si risveglia? Com’erano i globuli e le piastrine?
Tra poco arrivo.
Zaino in spalla, tutta la mia vita ficcata là dentro, nel vano tentativo di tenerla insieme.
Il cuore si ferma un attimo, perde qualche battito. Torpore invade le membra…
Eccola! Reazione: adrenalina. Sorrido, il cuore si lacera nel vedere il pallido volto cinereo, tirato, esausto. Le sue minute spalle sono sempre più curve quando esce da lì. Sono così piccole e devono sostenere quel macigno. Si piegano, si incurvano ma la schiena non si spezza.
Le occhiaie, il pallore. Le ossa che diventano sempre più visibili. Fragilità esposta.
Sguardo un po’ smarrito. Barcolla. Lividi sulle braccia.
«Dammi un minuto». Si siede. Gambe che tremano, si prende il volto tra le mani. Il corpo ondeggia sulla sedia.
Sorrido. «Ti trovo bene! Com’è andata oggi? Sono così contenta di vederti, sai che oggi…»
Aula universitaria o ospedale?
E si torna a casa, percorrendo sempre quella stessa strada. Sempre la stessa, sempre alle stesse ore. Avanti e indietro. Ritorno e andata. Un ciclo che si ripete all’infinito.
E in tutto questo ero sola. Passavo le mie giornate in solitudine. Nessuno con cui condividere un pensiero, un timore, un sorriso.
Zaino in spalla, libri sottobraccio, trascinavo il mio peso nelle aule e nei corridoi.
“Si vede che siete una famiglia unita”. Dio solo sa quanto vorrei avere dei genitori con cui parlare di tutto questo e lo stesso vale anche per allora. E invece…
Corridoi. Sedie. Lancette dell’orologio. Libro nella borsa. Aula universitaria o ospedale?
Infermiere in corsia. Giovani studenti in gruppo che schiamazzano e ridono nei corridoi.
Mia sorella nel letto d’ospedale, camice, camera in penombra.
Io, libro alla mano, chiuso. Università o ospedale?
Rabbia. Nervosismo. No, non mi parlare, non mi fermare che devo andare. No, prof, non oggi, per favore. Finisci la lezione che devo andare.
73, muoviti. No? Vado a piedi.
Sole, pioggia. Zaino in spalla, orologio sul polso. Movimenti automatici, memoria muscolare delle strade.
IGEA.
3° piano.
Aspetto il mio turno per vedere mia sorella. Esausta, lascio scivolare la schiena lungo le pareti del corridoio, mi accovaccio. Chiudo gli occhi. Un attimo… un attimo… datemi un attimo.
«Ilaria?»
Corpo: reazione. Adrenalina. «Sì?»
Aveva imparato a chiedermi aiuto
Ha perso la luce che aveva. Vedo tutto il dolore, tutta la paura e la stanchezza. Dopo nove mesi non riesce a nasconderle, a fingere di stare meglio di come sta in realtà.
«Ho paura» disse, prendendo la mano di mio padre e la mia. «Ho paura. Non voglio andare». Disse sulla barella, piangendo.
Un’altra parte di me morì in quel momento.
«Sono stanca. Voglio tornare a casa». Disse su quella poltrona rossa, nel corridoio, una sera, a me e nostro padre.
«Non ce la faccio più. Basta». E ciò che era rimasto di me morì in quell’attimo.
Tubi vermigli che uscivano dal suo corpo. Una magrezza mai vista in lei. Le conseguenze della chemio, ora segni visibili sul suo corpo. Perdita di capelli, nuca esposta.
Si guarda allo specchio e piange. «Sono brutta».
«Hey, Fede! Hai la barba, che schifo! Ma curati».
«Lalla, mi porti le pinzette così me li togli?»
Era rimasto solo un accenno di imbarazzo nella sua voce. Aveva imparato a chiedermi aiuto. Non si vergognava più, dopo tutti quei mesi, di chiedermi una mano.
Il mio corpo, un contenitore vuoto. Chino sulla scrivania, libro davanti agli occhi.
«Lalla?»
Corpo: reazione. Adrenalina. Libro chiuso.
«Lalla, guardiamo un film?» Libro chiuso.: «arrivo!»
Sguardo sulle pagine. Butto un occhio all’ora. «Fede, hai fame?» Libro chiuso. Parole che scorrono sotto i miei occhi. Lei è di là, da sola.
Lei è di là e tu la stai lasciando da sola solo per studiare.
Studiare? Devo studiare. Ancora un poco e poi vado da lei. Devo resistere. Devo andare avanti ma ci sono, per lei ci sono. Soprattutto per lei.
Veglio sempre su di lei
Corpo debole, corpo martoriato. Com’è minuta così, sul divano, nel suo cardigan. Anche quando dorme il suo volto non riesce ad essere disteso ma tradisce la sofferenza che prova.
Sonno agitato, sonno tormentato, quello di un corpo esausto che cede per l’esaustione e non quello ristoratore, ‘normale’.
E veglio, veglio sempre su di lei. Mentre studio, mentre pulisco, mentre sto seduta accanto a lei.
La vedo e in ogni momento mi è visibile la terribile guerra che combatte ogni giorno, in ogni istante. Senso di impotenza.
Non sono abbastanza. Un pensiero fisso.
Devo essere forte per lei. La ragione per andare avanti.
Vorrei prendere il suo dolore e con esso dilaniare la mia carne, le mie ossa, vorrei che il suo male attaccasse il mio corpo, lo distruggesse e divorasse perché… perché vederla soffrire così tanto mi uccide. Sempre. In ogni istante.
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