Tra le pieghe di una lettera una nonna battagliera, innamorata della lettura, in ‘La chiamavano Fata Turchina’ di Ilaria Colasanti. Roma, anni ’90
“Quando leggerai queste righe io sarò già lontana ma daje piccolè, su con la vita!”
Concludeva così, sempre scherzosa, quasi canzonatoria, perfino allegra, se si considera la situazione.
Le parole erano illeggibili, ormai, con tutte le volte che quella lettera l’avevo presa in mano.
Del resto, non mi serviva leggerla, la conoscevo a memoria e non dirò che fosse nel mio cuore.
Nella pancia, piuttosto.
Era di un altro mondo
Ripensare a lei era una ferita ; qualche volta sembrava rimarginata ma poi qualcosa tornava in superficie. Bastavano un odore, il gusto di qualcosa, l’aria di primavera anche in inverno.
Bastava solo un ricordo, capitato lì, nel mezzo di una giornata qualunque, a casa, ai giardinetti.
Una lettera della nonna, scritta qualche tempo prima che ci lasciasse.
Era successo così, all’improvviso, e anche se lei era molto anziana ormai, nessuno si aspettava che se ne andasse.
Era vecchia, vecchissima, di un’altra epoca, di un altro mondo.
Infatti aveva inaugurato il secolo scorso e vissuto due guerre mondiali, le loro conseguenze e gli anni successivi.
Una donna del popolo
Lavorava sempre, lavorava tutto il giorno fuori casa, come poche donne, a quei tempi.
Poi un giorno era andata in pensione. Ma quello è stato dopo, molto dopo.
Negli anni prima era sempre sta lì, dietro la bancarella di frutta e verdura.
In mezzo a colori, rumori e tantissima gente. Piazza Vittorio. Roma.
Tutte le stagioni si erano succedute, tutte erano passate sopra di lei, suoi suoi capelli neri neri che poi si erano ingrigiti e diventati bianchi.
Quando l’ho conosciuta io, per tutti era già Fata Turchina
Non era bella come una fata, era una donna del popolo, aveva mani grandi e screpolate, ma un sorriso largo e sincero.
Era turchina per via di quella sfumatura azzurra che le lasciava qualche prodotto misterioso usato dalla parrucchiera, senza riguardo per la moda.
Un’ebbrezza di spray poco ecologico, dal profumo intenso, molto finto.
L’unico vezzo che si concedeva, ‘farsi i capelli’ ogni tanto.
Per il resto non aveva tempo. Non faceva shopping, non andava al cinema, l’estetista non sapeva nemmeno chi fosse.
Però il tempo per leggere, quello la nonna lo trovava sempre.
Si arrabbiava con quei pezzi di carta
Al mercato, nei rari momenti di calma durante il lavoro, leggeva anche gli incarti fatti col giornale, sebbene spiegazzati e vecchi di giorni o mesi.
Alle volte si arrabbiava con quei pezzi di carta, che, a suo parere, non dicevano la verità, ed erano mal scritti, senz’anima. Raccontavano bugie, ma li leggeva lo stesso, brontolando, e non avrebbe mai ammesso che era importante conoscere anche un altro punto di vista.
Era una tipa battagliera, una che davanti agli uomini non si intimoriva e certo non si scansava per farli passare. Al mercato era difficile, destreggiarsi tra chi portava cassette di merce sulle spalle o spingeva carretti pesantissimi e non aveva tempo per i convenevoli.
Non che fossero maleducati, gli uomini della piazza. Nemmeno insensibili, a dirla tutta.
Tanta voglia di varcare la soglia
All’inaugurazione del Cinema-Teatro Ambra Jovinelli, in una fredda giornata d’inverno, si erano presentati tutti, lasciando per una volta le loro occupazioni pressanti.
A loro modo apprezzavano l’arte, non erano insensibili alla bellezza che a Roma era ovunque, tra rovine, giardini e piazze, nei tramonti estivi e nelle mattine d’ottobre, quando l’estate non accettava di lasciare il passo all’avvicendarsi delle stagioni.
La nonna finiva di lavorare e non correva a casa, non tutti i giorni. Prendeva la strada al contrario, trafelata. Aveva poco tempo ma tanta voglia di varcare la soglia. Il portone dell’ingresso era ad un passo da lei, la Biblioteca Popolare.
Un’oasi di pace in mezzo al trambusto della piazza e di tutte quelle strade.
Lì dentro, solo parole sussurrate, come a messa prima della funzione, come nelle case delle persone ricche, come dal dottore.
Oliver Twist
Il primo libro che Peppina aveva portato a casa era stato Oliver Twist, la storia di un bambino, un racconto all’inizio così triste che c’era voluto tutto il suo impegno per andare avanti.
Quel bambino era un po’ come i pischelli che giocavano per strada, come Brunetto, che aveva la mamma e molti fratelli e abitava in una specie di baracca fatta di lamiera, laggiù dove finiva Roma e iniziava la campagna.
Il padre, però, non c’era più e nessuno ne parlava, quasi che a non definire la sua assenza si sperasse in un suo ritorno, prima o poi.
La nonna allora era giovane e di bambini ne avrebbe avuti tre, eppure Brunetto, in un certo senso, era stato il primo, un piccoletto che, con il passar del tempo, si era preso un posto grande nel suo cuore.
Lei gli aveva insegnato a leggere quando lui a scuola non ci andava più e, a forza di saltar le lezioni, aveva disimparato quasi tutto. Aveva dieci anni, era una scheggia a fare i conti ma le lettere non riusciva a sistemarle al giusto posto e sbagliava, sbagliava e si arrabbiava.
La magia del profumo della carta
Così la nonna lo portava in biblioteca perché sapeva che il posto, il profumo della carta, la pace che si respirava lì , avrebbero prima o poi fatto una magia.
Quando era troppo stanca, prendeva in mano il suo romanzo e gli diceva, burbera. “Guarda che non c’ho tempo da perdere, preferisco leggere il libro mio. Te ne puoi pure andare”.
Lui però restava lì a guardarla, intenta, assorta, lontanissima dal mondo.
A poco a poco Brunetto aveva capito che per essere liberi davvero bisognava fare come lei, leggere e andarsene altrove.
Si era messo d’impegno, l’aveva aspettata alla fine del lavoro e , senza dire una parola, era arrivato davanti allo scaffale dei classici.
Aveva adocchiato Moby Dick, un librone, difficilissimo; lo aveva preso in mano, e letto a voce sussurrata , per lei che lo ascoltava a bocca aperta.
“Leggere mi ha dato una sponda”
Il giorno dopo la nonna era andata al forno, aveva comprato per lui il maritozzo, il dolce dei giorni di festa.
“…Era nato così un pupo nuovo, sai, piccoletta mia.
Uno che è stato sfortunato può sempre trovare un po’ di bellezza, grazie agli amici nostri, che sono i libri e, a volte, perfino i giornali. In tutta la vita mia c’è sempre stato qualcosa che mi aspettava, o ero io che aspettavo quel momento. Leggere mi ha dato una sponda, una riva, anche nei periodi duri, che sono stati tanti. Non capivo tutto, figurati, ho fatto la quinta elementare. Ad essere sincera non ho capito nemmeno quella storia di uomini e balene, magari tu, se ci sarà tempo, un giorno me la spiegherai.
Nonna tua”.
Ilaria Colasanti, genovese, residente in Veneto.
41 anni, ha una bambina di 11 anni, Sara, e un bambino di quasi 7 anni, Luca.
Bibliotecaria a Malo, paese di Meneghello. Si occupa di promozione della lettura, in particolare per bambine/i e ragazze/i. Appassionata di albi illustrati, di letteratura, di cinema e teatro.
Con la figlia Sara ha scritto la favola: Squitty, edita da Nep Edizioni.
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