Taglio netto agli stereotipi, alla maternità, all’abuso, tra api operaie, piaceri ovali e colore viola ne ‘I giorni dopo’ di Alice Rugai. Italia 2020
Gli uccellini cinguettavano, i panni erano asciutti e la ragazza osservava i passanti dal balcone. Due bambini che si rincorrono, ecco la madre che li segue con l’occhio, incinta. Ogni volta che la ragazza vedeva una donna incinta era sempre la stessa storia. Come un pendolo che non oscilla, la sua tendenza al volersi riprodurre, un orologio che riposa. Era tutto lo stereotipo che l’avvolgeva, le faceva caldo come il sole. Come gli uccellini che cinguettano. Succede più per inerzia o per desiderio? Si guardò le mani, perfette, lo smalto lucido in tinta con i capelli neri a boccoli che aveva o forse solo avrebbe solo voluto avere. Ci aveva messo tantissimo, da quel sorriso metallico e gli occhiali spessi, a piacersi, e lo aveva potuto fare solo una volta che lo smalto si era seccato. Pensieri come acetone pungente, la suocera che spera nel nipotino, ti sale su per il cervello e finisci per non capire più da dove viene. Ma avere bambini non era uno stereotipo. Non era tutto sempre uno stereotipo. Tirò fuori dalla tasca la pillola del giorno dopo che era corsa a comprare quella mattina. Ma io lo vorrei un bambino. Ma non così. Non così ma non lo so come. Sarei la madre perfetta per il figlio di qualcun altro. Come faceva ad essere normale? Una pancia che diventa sempre più grande, la nausea mattutina, controlli continui dei medici, medicine, dolore. Aveva letto molto sulla violenza ostetrica e i numeri parlavano chiaro. Non sapeva se la spaventava di più un aborto o un cesario d’urgenza. Certo, la maternità, la nascita, era sempre caricata di quel valore simbolico. Guardò la scatoletta di Ella One e pensò al colore viola. Erano viola anche le bustine che prendeva per dormire, viola era la scatola della crema vaginale, viola era la scatola degli assorbenti biologici che aveva iniziato a comprare da quando vi avevano levato l’iva. Spendeva di più ma almeno era tutto viola. Non rosa, che è lo stereotipo.
Rose senza spine
La ragazza era in un matrimonio felice da cinque anni, la festa era stata grandiosa, il suo smalto era impeccabile, si era da poco laureata e il marito l’amava come si amano le rose senza spine. Le era parso molto affascinante quel giorno, quando si era avvicinato alla cassa e le aveva lasciato un bigliettino, una frase su uno scontrino vecchio. Era venuto a salvarla? Sua madre aveva divorziato e suo padre aveva perso il lavoro, così dopo i corsi di Economia doveva sempre correre al supermercato per fare il turno serale. Sapeva ancora a memoria il numero da digitare per tutti i tipi di frutta. A volte se li ripeteva quando la notte non riusciva a dormire. Era sempre stata brava coi numeri. Per quello era andata ad economia, e suo padre ne era tanto orgoglioso.
La sera prima lo avevano fatto. Lei lo voleva tantissimo. Lo voleva. La prima volta senza preservativo. Lo aveva detto, ne avevano parlato, era tutto chiaro, e lei era diventata di legno laccato. Non era riuscita a raggiungere l’orgasmo e lui si era preoccupato. Ma no, dai, capita, sarò stanca. Aveva fatto gli incubi tutta la notte per risvegliarsi completamente assente. Avevano fatto colazione assieme, poi lui era andato a lavoro e lei era andata in farmacia.
“Signora, è sicura? Sa che la fecondazione potrebbe essere comunque già avvenuta?”
“Che me lo dice a fare?”
“La pillola vale solo per gli ultimi tre giorni”
“Le ho chiesto quella da cinque ma mi va comunque bene quella da tre”. Aveva avuto solo due rapporti non protetti nella sua vita ed erano finiti entrambi con la scena di lei che corre in farmacia. Non era bello ricordarsene.
“Signora, deve prenderla qui”
“Ma io vorrei avere un po’ di tempo per pensare”
“Allora torni più tardi”
“Più tardi non posso, me la dia”
“Fanno trenta euro”. La farmacista si era distratta un attimo col telefono e lei se ne era fuggita correndo, lasciando quei 50 euro sul bancone che non fanno venire voglia a nessuno di rincorrerti. Prima di tornare sul balcone aveva deciso di fare una passeggiata per godersi il sole nel quartiere, ed era, volente o nolente, finita all’orto botanico. Nessuno controllava mai se la sua tessera studenti fosse scaduta e continuava ad entrarci gratis. Non c’era nessuno e regnava il silenzio. Ridacchiò pensando alla farmacista. Come le marachelle, come quando aveva tagliato i capelli a quella bambina che continuava a dirle che era brutta. Zac. Guarda secondo me lui non è quello giusto, allora. Zac. C’era una panchina alla quale era molto affezionata, ci aveva passato interi pomeriggi a studiare durante il Master. Guarda che poi è troppo tardi. Chiuse gli occhi. Non aveva avuto molto tempo per gli amici, in quel via vai tra lavoro ed università con il quale se ne erano volati via i suoi vent’anni. E la pillola, e la spirale e il bastoncino sottocutaneo. Gli ormoni le avevano quasi fatto scomparire il ciclo e non aveva mai capito se fosse stata una cosa buona o meno. Aveva cambiato quattro ginecologhe prima di trovare qualcuno che le avesse fatto smettere di prendere la pillola. Non aveva fatto in tempo a rallegrarsene che un suo collega le aveva chiuso la porta a chiave e bloccato i polsi. Stavano per chiudere. Le si era soffocato in gola, quel no gigantesco, mentre le scatole del magazzino oscillavano. Era troppo stanca. E non riusciva realmente a crederci a quello che stava succedendo, lo vedeva dall’alto e a rallentatore.
L’ape operaia
E a volte, nella notte, ci tornava, dentro quel magazzino, come un’ape operaia silenziosa, osservava se tutto fosse in ordine, le etichette al loro posto e la cella frigorifera chiusa. Svolazzava per vedere se ci fosse rimasto qualcosa che dimostrasse quanto fosse stato orribile. E poi si risvegliava sudata nel mezzo della notte con l’impressione che il corpo non fosse realmente il suo. Un comodino. Avrebbe preferito essere uno sterile comodino di legno laccato, più facile che ritrovarsi donna. Era pieno di api e una iniziò a ronzarle molto vicino. Decise di non aprire gli occhi e continuare a gustarsi il sole sulle palpebre e le labbra che diventavano sempre più secche. Si sedette sulla parte più alta della panchina, di modo che anche le sue gambe potessero prendere il sole. Aveva il vestito coi girasoli che le aveva regalato sua madre per la laurea. Lo scollo era tutto fatto a mano, le aveva tenuto il ricamo nascosto per mesi, per poi farla piangere di fronte a tutti una volta uscita dalla discussione. Iniziò ad accarezzare i fiori come fanno le api, in senso orario, poi antiorario, poi le sue dita seguirono i bottoni, giù, giù fino ad arrivare all’ombelico. Era sempre più caldo. Aprì svogliatamente l’occhio destro per controllare se ci fosse qualcuno, ma si sentivano solo le api, e il sentiero era coperto da una serie di alti cespugli. Le sue dita iniziarono a massaggiarsi le mutande, senso orario, poi antiorario, come fanno le api coi fiori. Poi le lasciò cadere ai suoi piedi, e allargò leggermente le gambe. Era come se il sole riuscisse ad arrivare là sotto, si sentì invasa di un calore materno, accarezzata dal vento di quando in quando, dal ronzio degli insetti. Movimento orario, poi antiorario, solo coi polpastrelli, come si gioca con la cera bollente. Sempre più veloce, come a rincorrersi. I suoi riccioli neri, che aveva o che voleva avere, sussultarono e la serie di contrazioni che ne seguì, sempre più lente ma non meno intense, la fece sentire parte di quel luogo, una delle tante radici, un momento dell’essere. Scivolò giù dalla panchina e l’asfalto bollente dilatò la sensazione. Un piacere ovale come l’eco dei sassi lanciati nei fiumi. Indossò di nuovo la sua biancheria e tornò a casa con una foglia nel cuore. L’ansia si era attutita. La ragazza aprì la scatoletta e tirò giù la pasticca. Zac. La madre tornava dal supermercato, i due bambini la stavano aiutando a portare i sacchetti. Lasciò la sua vedetta per andare a sistemare nel vaso i fiori che aveva rubato all’orto e si tagliò le unghie. Zac. Guardò con attenzione tutto quello che la circondava e le sembrò di essere improvvisamente di nuovo presente, come a vederlo per la prima volta.
Una stanza tutta per sé
La sua scrivania era impeccabile, i post- it erano in ordine di colore, il calendario dei Gatti segnava il giorno giusto, le matite appuntate. C’era una scheggia sulla gamba sinistra del tavolo, il quadro era leggermente storto, era una stanza enorme, una stanza tutta per sé che con il solo part time non si sarebbe mai potuta permettere. Tuttavia una stanza bellissima. Illuminata costantemente dal balcone con terrazza rivolto verso sud, abbastanza in alto da non poter essere vista da nessuno. Spalancò la finestra e si sedette. Alle volte sperava di diventare un comodino, di quelli in legno laccato con le manopole in metallo, ma oggi era la stanza intera. Il vento accompagnò un’ape nella stanza. L’ape si soffermò qualche minuto sul tavolo, poi fece qualche volo di controllo e non la notò, come se non ci fosse. Un fantasma di numeri, una presenza che infestava il suo salotto. Non vi erano foto appese, era la stanza di chiunque. L’ape si ostinava a sbattere contro il vetro della finestra. Patetico. L’ape insisteva. A lei i significati simbolici l’avevano sempre fatta un po’ ridere e si fidava solo dei numeri. 66782 per le mele, 8875 i Kiwi. Fanno 30 euro e 40. No, la carriera non c’entra nulla, non è che una cosa esclude l’altra. No, la preoccupazione economica non ce l’abbiamo. Perché? Perché devo sempre dare un perché? Voleva il simbolico fuori dalla sua testa. Prese una scopa e accompagnò l’ape all’uscita. Era molto più di un comodino. Zac. Zac. Il sole stava tramontando quando suonò il campanello. Si precipitò ad aprire: “Non ce la faccio, non lo voglio un bambino, scusa”
“Il sushi lo vuoi invece?”
“Ho detto che non sto bene, che non voglio un bambino”
“Io questo lo avevo già capito benissimo, aspettavo fossi tu ad accettarlo. E ho comprato del sushi, il tuo preferito”
“Oggi dopo sette anni sono riuscita a masturbarmi”
“Bene, ho anche il Wakame”
“Grazie”
“Io voglio solo che tu stia bene”
Alice Rugai scrive e vive a Berlino dove è attualmente iscritta ad un Master in Studi Teatrali sotto il Dipartimento di Filosofia. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, lavora nel sociale e per un’azienda che si occupa di analisi di presenza mediatica. Nel tempo libero non ha tempo libero. Le sue insistenti e ironiche opinioni, pubblicazioni e altri incidenti artistici si possono seguire sul blog Muitoevoli e sull’omonima pagina Facebook.
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