Come temeva, Anna si scopre ‘Incinta e licenziata’, ma la gravidanza le porta una figlia e un dono potentissimo: il coraggio
La sveglia suonava infilando le sue note stridule nelle mie orecchie.
Luca dormiva beato come un bambino di fianco a me e, abbracciandolo, respirai per un po’ quell’odore di buono che amavo in maniera totalizzante e pura.
All’ennesimo cenno della sveglia mi alzai.
Luca aveva apparecchiato la tavola della colazione per me, amavo i suoi timidi gesti d’amore. Stranamente quella mattina non riuscì a finire il mio cappuccino, ero stanca, sonnolente, con un ciclo sempre in ritardo – dovuto allo stress, diceva seccato il mio medico. Mi vestii e presi di corsa la sacca con dentro il mio camice pulito. La clinica ondontoiatrica in cui lavoravo, ormai da 7 anni, come assistente alla poltrona, profumava di disinfettante e yankee candle alla vaniglia. Quell’odore era diventato ormai casa.
<< Che hai stamattina Anna ? Sembra tu abbia visto un fantasma ! Hai fatto nottata brava ???>> disse Grazia, la simpatica segretaria 65enne che dispensava mentine senza zucchero, alludendo al weekend appena trascorso. Sorrisi e filai dritta nello spogliatoio. Effettivamente aveva ragione.
Incinta!
La giornata trascorse lenta, tra un’estrazione, una pulizia e un simpatico bambino che mi vomitó sul camice. Di rimando vomitai anche io, e non mi era mai successo in 7 anni di lavoro in studio. Non so se fosse stato il vomito del ragazzino, la battuta di Grazia, o lo specchio che mi aveva rimandato un’immagine smunta di me, ma all’improvviso ebbi l’epifania : ero incinta! Comprai un test di gravidanza a fine serata e tornai a casa mentre iniziava a nevicare.
<< Avrei dovuto capirlo !>> dissi ad alta voce in bagno, tentando di ripulire alla meglio il camice. Luca preparava la cena.
<< Anna stai bene ?? Parli con tua madre ??>> urló dalla cucina.
<< Sto bene, sto bene>> mentii.
In realtà non so bene perché lo feci, eravamo sposati da 1 anno e l’idea della famiglia allargata era sicuramente nei nostri progetti.
Luca era un architetto.
Lavorava fino a notte fonda, procacciava clienti, sistemava preventivi. Era uno stacanovista. Sulla nostra frenetica vita pesava un mutuo da pagare e lo studio da architetto appena avviato. I bambini sarebbero arrivati, ci dicevamo, ma non adesso. La maternità era un tabù invece per il mio studio. Era un tabù perché ci gravava un avvenimento scomodo, che silente, per un po’ aveva minato l’integrità morale dei titolari agli occhi di tutti. Prima di me infatti, la vecchia assistente, un pilastro per molti pazienti, fu licenziata dalla sera alla mattina senza preavviso e solo dopo si scoprì aver avuto un bambino. Esattamente 9 mesi dopo.
La legge dell’attrazione
Il nostro è un piccolo studio di paese, si vociferò a lungo ma la verità non si seppe mai.
Subito dopo di lei arrivai io. Fresca di laurea, piena di voglia di lavorare. Nello studio oltre me e Grazia, che aveva 65 anni suonati, sono tutti uomini. La maternità dunque non era adesso una priorità ma sapevo che quell’idea mi accarezzava segretamente i pensieri. Un po’ come la legge d’attrazione universale di cui mi aveva parlato tempo fa mio padre. Diceva che abbiamo il potere di attirare a noi ciò che immaginiamo.
Avevo così attirato a me un bambino che adesso non volevo. Avevo un sacco di progetti ancora da realizzare, lo studio da gestire e non potevo permettermi di perdere il lavoro. Perché era fondamentalmente di questo che si trattava. E per quanto triste fosse questa amara verità, la realtà in cui vivevo era la migliore aspettativa che un paese del sud come il mio potesse offrirmi.
Feci il test e seduta sulla tazza del bagno, attesi un risultato che in fondo conoscevo già.
Sobbalzai quando di scatto Luca aprì la porta.
<< Anna ma tutto bene ? Sei qui da un’ora. È successo qualcosa ?>>
<< Sono incinta >> bisbigliai guardandolo dritto negli occhi. Io ero lì pur sentendomi sulle nuvole, con il test tra le mani e le due linee nitide e perfette che rimandavano una verità scomoda. Luca, allibito,si chinó verso di me e mi abbracció.
<< Nevica Anna, la neve porta con se una gioia nascosta. Me lo hai insegnato tu. Ricordi? Andrà tutto bene Anna.>> mi sussurró dolcemente all’orecchio. Andammo a letto e dormimmo abbracciati.
Ho sognato un bambino senza volto
Non sapevo se essere felice, o forse segretamente lo ero, solo che dovevo tenerlo per me. Avevo paura. Un vortice di cose da dire e da fare affollava le mie notti insonni. Il tempo scorreva veloce nello studio, le giornate erano frenetiche e piene, i pazienti che non pagavano, le lune storte dei due titolari e i loro litigi. Tornavo a casa ogni giorno oltre le 21. Il weekend lo trascorrevo sul divano, stremata, accarezzandomi segretamente quella rotondità che timidamente si affacciava. Luca rimproverava spesso la mia noncuranza e si barcamenava tra studio e casa come un matto. L’aria era diventata pesante e mi soffocava. Tutti che mi dicevano cosa fare e come farlo. Ero visibilmente stanca ma il mio corpo mi dava costantemente conferme, il mio medico diceva che andava tutto perfettamente bene e i miei jeans confermavano quanto la piccola vita dentro di me si stesse prendendo i suoi spazi. Non c’era motivo per rallentare nè per preoccuparsi. Ero a 18 settimane. Il mio specchio mi rimandava delle rotondità meravigliose che giorno dopo giorno faticavo sempre più a nascondere.
<< Troverò il momento opportuno >> dicevo ogni volta, mentendo a me stessa. Era il 21 marzo, quando decisi che avrei detto finalmente tutto, assumendomene le conseguenze. Avevo sognato il mio bambino, un sogno terrificante, un bambino senza volto che mi veniva strappato via dalla pancia, lasciandomi un voragine nera che mi aveva risvegliata in preda al panico. Lo interpretai come un segnale. Arrivai in studio prima di tutti, mi preparai il mio bel discorso nello spogliatoio, quando improvvisamente un calore fortissimo mi annebbiò la vista accasciandomi sul pavimento.
Un dono potentissimo
Sentii e una lama che mi trafiggeva le viscere. Presi il telefono con le mani tremanti e chiamai Luca << Sto male. Vieni in studio>> dissi con un filo di voce. Poi il buio. Aprii gli occhi a fatica con la testa che mi pulsava. Tentai di riaddormentarmi, ma una mano calda mi strinse con vigore << Ehi, Annina mia, come stai ?>> era la voce di mia madre. Il soffitto bianco con le luci a neon mi accecava, mi tirai su a fatica, sentivo odore di alcol, le braccia mi bruciavano e le lenzuola erano ruvide e pesanti.
<< Ma che è successo ? Che ci fai qui? >> sbiascicai ancora assonnata. Mi stropicciai gli occhi, e realizzai dove fossi.
<< Il bambino mamma !!! Come sta ? Cosa è successo ???>> urlai, in preda al panico, nella stanza. L’immagine della voragine buia nel mio incubo tornò prepotente alla memoria.
<< Shhhh Anna sta calma. La bambina sta bene. Tu stai bene>> mi disse dolcemente mia madre poggiandomi la testa sul petto.
<< Mamma ma cosa è successo?>> dissi con la voce che come un nodo mi si bloccava nella gola.
<< Ha avuto delle contrazioni importanti signora, e anche un repentino rialzo di pressione. La terremo sotto controllo per un po’. La bambina sta bene. Sapeva che era una bimba vero ?? In ogni caso ha rischiato grosso, sia lei che la bambina. Si riguardi>> disse distrattamente il primario di reparto. Piansi, in uno di quei pianti liberatori che non facevo da un po’. Avevo stupidamente rischiato tutto. Luca mi spiegó con calma cosa fosse successo. Capii poco. Sapevo solo che la bambina stava bene e che avrei dovuto rallentare. Rallentare era la parola che mi ripeterono in molti in quei 3 giorni di decenza.
Mi ripresi lentamente, le forze mi tornarono e con esse una nuova me che da tempo giaceva dormiente nella coscienza. La mia bambina, sì era una femmina, l’ennesima femmina della famiglia, portava con se un dono potentissimo, il coraggio. Allo studio era stato raccontato di un forte stress. Sapevano del mio ricovero eppure avevano taciuto, come se fossi un estranea, come se per 7 anni fossi stata solo uno dei costosissimi quadri appesi in sala d’attesa. La cosa mi disgustava alquanto. Grazia venne a trovarmi portandomi deliziosi dolcetti di mandorla.
Un piccolo paese omertoso e maschilista
Quella lacerante paura mi aveva svegliata da un lungo letargo. Acquisii una nuova consapevolezza, non ero più sola oramai. La scala delle priorità si era capovolta, un miracolo aveva scelto di affacciarsi nelle nostre vite come un uragano e nessun ostacolo lo avrebbe fermato. Tornai a casa. Indossai il mio abito migliore, la pancia visibilmente tonda sotto quell’abito attillato, mi rendeva bellissima. Arrivai in studio di buon ora, pronta a prendermi la responsabilità della mia scelta, ma ad accogliermi trovai solo Grazia e il suo volto duro come mai visto prima. Sulla scrivania una busta trasparente, come quella dei detenuti, conteneva tutti i miei 7 anni lì dentro. Un biglietto allegato diceva “Cara Anna riguardati, grazie di tutto. Prenditi cura della tua bambina”. Riconobbi la scrittura perfetta di Grazia.
<< Perdonami Anna, ho dovuto dirlo, perdonami…>> singhiozzó Grazia, visibilmente dispiaciuta. Le diedi un tenero buffetto sulla guancia e andai via.
Non capii esattamente il significato di quel biglietto, di quella busta di cellophane, quello che capii e che sentii profondamente, fu che non me ne importava nulla. Si sgretolarono ai miei piedi 7 anni di cieca dedizione. Non sapevo dove il futuro mi avrebbe portata, cosa ne sarebbe stato del mio camice inamidato con cura, non sentivo niente. Una cosa però l’avevo capita, che la vita può stupirti in mille modi, e che spesso tira degli schiaffi così forti da lasciare il segno, per poi accarezzarti con il più dolce dei doni. Era la storia che tristemente si ripeteva ancora una volta. Quella di un piccolo paese omertoso e maschilista che non lascia spazio, ma soffoca, soffoca quando vocifera, soffoca quando tace, soffoca quando lascia le cose immobili. Andai via, con il sapore dolceamaro delle cose perse.
Mangiai un pasticcino delizioso nel bar di fianco allo studio e salutai per sempre quella strada che aveva conosciuto quella giovane donna impaurita che ormai, fortunatamente, non esisteva più.
Francesca Grimaldi
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